Arte di regime
“Le piazze della città, come moderni album di famiglia che ricordano solo ciò vogliono ricordare, finti, ingannevoli, supponenti.
Piazze che inseguono o consacrano miti ed escludono.
La soluzione finale, ideologica?
I mendicanti non esistono.
I gay e le lesbiche non esistono.
I drogati non esistono.
Gli immigrati abusivi non esistono.
Le casalinghe imbruttite dalla vita non esistono.
Gli spazzini a tempo determinato non esistono.
Gli ambulanti esistono se pittoreschi.
Esistiamo solo noi e siamo belli e facciamo cose belle e ci mettiamo in piazza, perché la piazza è nostra!”
Ora che “l’arte contemporanea” sta entrando sempre più prepotentemente nel mercato con le sue contraddizioni e le sue espressioni , perlomeno in alcuni casi, estremamente semplicistiche, viene spontaneo chiedersi:
chi decide i prezzi? Quali i criteri per la valutazione? Chi decide che un opera è arte e un altra no?
I criteri valutativi sono molto spesso personali, l’oggettivazione del gusto è improbabile, le influenze culturali, sociali, psicologiche, territoriali, religiose e quant’altro sono determinanti.
Si creano delle gerarchie espressive, livelli diversi in cui l’arte muta significato, sicuramente legati allo stato socio-economico-culturale ma non esclusivamente e dove mutano anche le valutazioni sul mercato.
Dal paesaggio in acquarello alle provocazioni di Cattelan il salto economico è notevole. Ma è anche diverso il contenuto (o forse no), quale sia il “migliore” diventa argomento di dibattito.
Queste differenze consentono, a chi possiede mezzi maggiori di impatto socio-economico, culturale e politico, di gestire il mercato del gusto.
L’evidenza di questo sistema si è rivelato con la rana di Kippenberg, dove, un lavoro tecnicamente discutibile, portatore di una provocazione piuttosto comune (la blasfemia e gli attacchi alla Chiesa non sono nuovi, per quanto giustificati) è arrivato a costare molto più del suo valore originale, dopo l’operazione Museion.
Il lancio di un prodotto sul mercato, niente altro. Gli effetti della provocazione sono durati una stagione.
La gestione “allegra” dei soldi dedicati all’arte, “feste artistiche” per gli “amici”, esclusioni fasciste (con significato ideologico non politico) dei potenziali concorrenti, monopolio pretenzioso sulla cultura, provocazioni di bassa lega sono al momento l’espressione più evidente dell’arte di regime, curata dai suoi cortigiani ben pagati.
Concorsi incredibilmente ricchi, poco chiari nelle indicazioni, con criteri valutativi di premiazione che dal qualunquismo più assoluto passano alla promozione alla guerra e alla conferma che chi può (mezzi economici), è privilegiato (vedi concorso La Seconda Luna ex Premio Città di Laives) . Per non parlare dei personalismi arroganti di chi viene incaricato d’occuparsi di queste cose.
La lotta all’ingabbiamento ideologico, perpetrata dall’arte negli ultimi secoli è stata assorbita e utilizzata dai soliti avvoltoi ingordi per rivenderla, rendendola un business.
Purtroppo la scrematura effettuata dal mondo economico limita enormemente l’espressione artistica, censurandola o condizionandola.
I servi-seguaci del potere si prodigano per mantenere quei privilegi, (il mercato de) l’ arte è fatta da critici, curatori e galleristi di rilievo (spesso solo ereditato) che ne dettano le linee guida legate ad interessi economici e politici (di potere) e con criteri assolutamente personali.
Nell’affannosa ricerca del nuovo a qualunque costo che purtroppo secondo una logica di mercato significa un prodotto da lanciare e un profitto da accumulare, si prova di tutto, tentando di far passare l’idea che qualsiasi attività umana dotata di un certo tecnicismo possa essere arte, al di là di ciò che comunica. Cosi l’arte rischia di diventare creatività, passione, originalità, tecnica, artigianato (attività e atteggiamenti che collaborano con l’arte però con una loro autonomia di significati, intenti, obbiettivi), riducendo il suo valore peculiare. (deliranti dichiarazioni pubbliche di veline che si definiscono artiste rendono l’idea della cultura di massa, quella che guarda la tv!). Non credo che il datato intento di distruzione del concetto borghese di arte possa passare per squalificazioni dozzinali che rivelano con evidenza il loro proposito di profitto. La società dello spettacolo all’apoteosi!
Non è un tentativo nuovo e per quanto apparentemente prospetti maggiori possibilità di intervento “artistico”, in realtà lo appiattisce, squalifica, relativizza fino ad arrivare ad ucciderlo, dire che tutto è arte significa che nulla lo è. Il quesito è : l’arte è una sovrastruttura di una certa cultura o è un fenomeno umano? Il mio “legame” con le grotte d’Altamira tendono a farmi optare per la seconda ipotesi e probabilmente per questo, continuo nella mia attività-ricerca artistica e tento di sfuggire le implacabili critiche di Guy Debord (G. Debord La società dello spettacolo).
Con questo non concedo all’arte un valore implicito di superiorità nei confronti dell’attività tecnico-creativa multidisciplinare ma le concedo un ruolo diverso in cui significato e significante coesistono e si evidenziano in un linguaggio particolare con forti contenuti storici, superamento del concetto borghese (o di privilegio, se preferite) di arte, non significa semplicemente cambiargli il significante (l’immagine del significato).
Le stesse provocazioni inglobate in una logica di mercato si spengono in breve tempo. Le avanguardie (esistono?) fanno la stessa fine, Debord brinda nelle tomba e il suo spirito incombe sui poveri artisti. Si pensa di andare avanti ma in realtà restiamo fermi o addirittura si indietreggia, in linea con i tempi.
La riflessione debordiana giunta a compimento dovrebbe essere superata non ignorata o addirittura accolta.
La battaglia del secolo scorso per togliere l’arte dal controllo dei privilegiati è stata persa. La guerra mi auguro continui.
Il cavaliere inesistente
“Le piazze della città, come moderni album di famiglia che ricordano solo ciò vogliono ricordare, finti, ingannevoli, supponenti.
Piazze che inseguono o consacrano miti ed escludono.
La soluzione finale, ideologica?
I mendicanti non esistono.
I gay e le lesbiche non esistono.
I drogati non esistono.
Gli immigrati abusivi non esistono.
Le casalinghe imbruttite dalla vita non esistono.
Gli spazzini a tempo determinato non esistono.
Gli ambulanti esistono se pittoreschi.
Esistiamo solo noi e siamo belli e facciamo cose belle e ci mettiamo in piazza, perché la piazza è nostra!”
Ora che “l’arte contemporanea” sta entrando sempre più prepotentemente nel mercato con le sue contraddizioni e le sue espressioni , perlomeno in alcuni casi, estremamente semplicistiche, viene spontaneo chiedersi:
chi decide i prezzi? Quali i criteri per la valutazione? Chi decide che un opera è arte e un altra no?
I criteri valutativi sono molto spesso personali, l’oggettivazione del gusto è improbabile, le influenze culturali, sociali, psicologiche, territoriali, religiose e quant’altro sono determinanti.
Si creano delle gerarchie espressive, livelli diversi in cui l’arte muta significato, sicuramente legati allo stato socio-economico-culturale ma non esclusivamente e dove mutano anche le valutazioni sul mercato.
Dal paesaggio in acquarello alle provocazioni di Cattelan il salto economico è notevole. Ma è anche diverso il contenuto (o forse no), quale sia il “migliore” diventa argomento di dibattito.
Queste differenze consentono, a chi possiede mezzi maggiori di impatto socio-economico, culturale e politico, di gestire il mercato del gusto.
L’evidenza di questo sistema si è rivelato con la rana di Kippenberg, dove, un lavoro tecnicamente discutibile, portatore di una provocazione piuttosto comune (la blasfemia e gli attacchi alla Chiesa non sono nuovi, per quanto giustificati) è arrivato a costare molto più del suo valore originale, dopo l’operazione Museion.
Il lancio di un prodotto sul mercato, niente altro. Gli effetti della provocazione sono durati una stagione.
La gestione “allegra” dei soldi dedicati all’arte, “feste artistiche” per gli “amici”, esclusioni fasciste (con significato ideologico non politico) dei potenziali concorrenti, monopolio pretenzioso sulla cultura, provocazioni di bassa lega sono al momento l’espressione più evidente dell’arte di regime, curata dai suoi cortigiani ben pagati.
Concorsi incredibilmente ricchi, poco chiari nelle indicazioni, con criteri valutativi di premiazione che dal qualunquismo più assoluto passano alla promozione alla guerra e alla conferma che chi può (mezzi economici), è privilegiato (vedi concorso La Seconda Luna ex Premio Città di Laives) . Per non parlare dei personalismi arroganti di chi viene incaricato d’occuparsi di queste cose.
La lotta all’ingabbiamento ideologico, perpetrata dall’arte negli ultimi secoli è stata assorbita e utilizzata dai soliti avvoltoi ingordi per rivenderla, rendendola un business.
Purtroppo la scrematura effettuata dal mondo economico limita enormemente l’espressione artistica, censurandola o condizionandola.
I servi-seguaci del potere si prodigano per mantenere quei privilegi, (il mercato de) l’ arte è fatta da critici, curatori e galleristi di rilievo (spesso solo ereditato) che ne dettano le linee guida legate ad interessi economici e politici (di potere) e con criteri assolutamente personali.
Nell’affannosa ricerca del nuovo a qualunque costo che purtroppo secondo una logica di mercato significa un prodotto da lanciare e un profitto da accumulare, si prova di tutto, tentando di far passare l’idea che qualsiasi attività umana dotata di un certo tecnicismo possa essere arte, al di là di ciò che comunica. Cosi l’arte rischia di diventare creatività, passione, originalità, tecnica, artigianato (attività e atteggiamenti che collaborano con l’arte però con una loro autonomia di significati, intenti, obbiettivi), riducendo il suo valore peculiare. (deliranti dichiarazioni pubbliche di veline che si definiscono artiste rendono l’idea della cultura di massa, quella che guarda la tv!). Non credo che il datato intento di distruzione del concetto borghese di arte possa passare per squalificazioni dozzinali che rivelano con evidenza il loro proposito di profitto. La società dello spettacolo all’apoteosi!
Non è un tentativo nuovo e per quanto apparentemente prospetti maggiori possibilità di intervento “artistico”, in realtà lo appiattisce, squalifica, relativizza fino ad arrivare ad ucciderlo, dire che tutto è arte significa che nulla lo è. Il quesito è : l’arte è una sovrastruttura di una certa cultura o è un fenomeno umano? Il mio “legame” con le grotte d’Altamira tendono a farmi optare per la seconda ipotesi e probabilmente per questo, continuo nella mia attività-ricerca artistica e tento di sfuggire le implacabili critiche di Guy Debord (G. Debord La società dello spettacolo).
Con questo non concedo all’arte un valore implicito di superiorità nei confronti dell’attività tecnico-creativa multidisciplinare ma le concedo un ruolo diverso in cui significato e significante coesistono e si evidenziano in un linguaggio particolare con forti contenuti storici, superamento del concetto borghese (o di privilegio, se preferite) di arte, non significa semplicemente cambiargli il significante (l’immagine del significato).
Le stesse provocazioni inglobate in una logica di mercato si spengono in breve tempo. Le avanguardie (esistono?) fanno la stessa fine, Debord brinda nelle tomba e il suo spirito incombe sui poveri artisti. Si pensa di andare avanti ma in realtà restiamo fermi o addirittura si indietreggia, in linea con i tempi.
La riflessione debordiana giunta a compimento dovrebbe essere superata non ignorata o addirittura accolta.
La battaglia del secolo scorso per togliere l’arte dal controllo dei privilegiati è stata persa. La guerra mi auguro continui.
Il cavaliere inesistente
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