- Quando un rappresentante delle istituzioni si permette di dichiarare che gli inquilini IPES sono dei privilegiati,
- quando lo spazio vitale minimo per un inquilino Ipes è calcolato intorno ai 25/30 metri quadri e loro tutt'al più ci mettono il bagno,
- quando si sopprime un servizio di trasporto pubblico, cioè vostro, così..,
- quando i rappresentanti delle istituzioni si scagliano contro gli abusi alcolici e poi presenziano all'inaugurazione del monumento alla birra,
- quando tra rane crocefisse, ritratti del papa, mercatini di natale e feste danzanti al Museion, Bolzano diventerà capitale europea della cultura,
- quando per decidere sui tagli ai cittadini contribuenti basta qualche giorno mentre per decidere sui tagli ai costi della politica non bastano anni,
- quando la maggior parte del loro stipendio lo pagate voi,
- quando non vogliono più contribuire alle feste di piazza, le vostre,
- quando fanno pagare la festa di piazza, la vostra festa,
- quando c'è stato un buco nel bilancio del Museion,
- quando c'è un buco nel bilancio Caritas,
- quando:"..e il buco chi lo paga" e :"..i corresponsabili dell'ammanco pagano?",
- quando chiudono le scuole pubbliche,
- quando il patentino ignora i diritti costituzionali,
- quando il massacro degli appalti e delle privatizzazioni impoverisce i già poveri,
- quando un professionista della solidarietà rischia di far saltare il pranzo di natale per i poveri,
- quando un altro professionista della solidarietà si "sacrifica" rinunciando al guarda roba nuovo per l'anno a venire, per dare un buon esempio,
- quando ormai fanno quello che vogliono tanto voi non avete voce,
- quando l'arroganza, la presunzione, il piccolo o grande potere hanno il sopravvento,
venerdì 31 dicembre 2010
OTZIWORLD
domenica 31 ottobre 2010
"LA VITA é COME UN FILM"
Direi che è difficile negare un azione recitativa nei nostri rapporti sociali, una considerevole parte di atteggiamenti in cui noi, esseri umani, ci comportiamo come attori spesso costretti ad un ruolo determinato da altri/o.
La logica impone una parte rituale nei rapporti sociali in cui la coscienza della sua necessità supera l'ansia di fingere. Questo probabilmente dovrebbe essere il limite, che appare oramai superato dai processi evolutivi della società del profitto, tanto da spingersi all'opposto.
La finzione, perdendo il suo carattere rituale, ha preso il sopravvento, "le recite" non sono più espressione dell'incontro sociale ma determinanti nella definizione del sè, più uno è bravo a recitare un ruolo nella relazione sociale più è riconosciuto dagli altri attori, al di là di chi siano in realtà.
Nella società dello spettacolo non importa chi tu sia importa ciò che vuoi far credere di essere.
Ne abbiamo ottimi esempi nella politica, nell'economia (arrivismo, marketing, burocrazia), ma anche nella quotidianità dove eccellere, in qualunque campo, compensa altro e permette il riconoscimento dell'io sociale del momento.
Il cavaliere inesistente
giovedì 7 ottobre 2010
ARRIBA ARRIBA ARRIBA
Esistono comportamenti umani nel confronto sociale che trovo veramente spregevoli nella loro assoluta dedizione alle dinamiche social-capitalistiche, uno di questi comportamenti o disturbi (da un punto di vista psicopatologico) è l'arrivismo, atteggiamento facilmente individuabile e particolarmente presente nelle società contemporanee.
L'obbiettivo dell'arrivista è fisso, il percorso è flessibile in un ottica macchiavellica, in cui tutto va bene purchè tendente all'obbiettivo finale che non può essere altro che l'autoaffermazione (anche economica).
L'arrivista se ne "strafotte" del percorso e degli "ostacoli" (vissuti come ostacoli e non come opportunità) che scavalca utilizzando il semplice sistema del "forte con i deboli e debole con i forti".
L'arrivista si adegua incessantemente secondo le convenienze e chiama questa modalità "flessibilità" o "apertura mentale", le convenienze spesso non hanno nulla a che fare con l'attività specifica (campo di lavoro) dell'arrivista.
L'arrivista è una delle emanazioni di maggior efficacia del sistema produttivo, è un consumatore quasi completo. Non solo la materia ma anche il pensiero portante del sistema capitalistico viene consumato e pubblicizzato attraverso un indice di gradimento.
L'arrivista è un modello sociale capitalistico.
BUTTADE
- La mafia è un organizzazione criminale ma è anche un atteggiamento mentale, un modo di intendere i rapporti tra le persone, un modo per mantenere potere e privilegi, un modo che nel nostro "amato" paese ha a che fare con la sua stessa storia culturale. I sistemi organizzati, le corporazioni, le stesse istituzioni fino ad arrivare alle piccole o grandi asssociazioni, i gruppi con interessi comuni, in un certo modo evidenziano un sistema di relazioni basate su forze di potere che tendono in primis a mantenersi e tutelarsi.
- Ammettere l'esistenza di un "disturbo asociale" sottintende l'esistenza di un sociale non disturbato, ammettere l'esistenza di un sistema sociale non disturbato, in atto, potrebbe essere, a questo punto, un disturbo della percezione della realtà. Probabilmente è per questo che oggi mi sento un poco "disturbato".
- Gran parte degli psichiatri sono persone senza memoria, gran parte degli psicanalisti sono persone con una memoria fantasiosa.
- Ma lo siamo o ci fanno?
- Un altro esempio di mutazione dei significati delle nostre parole è quello del sostantivo giustizia, termine particolarmente alla ribalta di questi tempi (vedi riforma della giustizia, etc..). Legge e giustizia sono due cose diverse. Mentre la legge è un insieme di codici di regolamentazione del sociale, la giustizia si riferisce ad un valore condiviso utile ad uno stile di vita in cui di base resta l'eguaglianza degli uomini. La giustizia ha poco a che vedere con la legge, tant'è vero che le leggi possono variare da paese a paese mentre la giustizia (sociale,economica,politica,etc..) assume una valenza (o almeno dovrebbe) universale.
Il cavaliere inesistente
mercoledì 28 luglio 2010
L'UOMO GRIGIO
Dopo le prime tre o quattro frasi smette di guardarmi negli occhi, sicuramente non è uno stupido nel senso più comune del termine, sta già valutando le contro mosse.
Non perde tempo ad ascoltare le mie ragioni, quali che siano.
Non gli interessano.
Sono solo un pelo in un occhio, un fastidio a cui togliere il potenziale, non importa se ciò che dico sia vero o meno, non importa se ciò che riporto abbia valore, importa solo che io smetta di essere un problema.
E’ l’uomo grigio, piccolo, baffetti alla francese, occhi sfuggenti. L’aria insignificante nasconde un potere maturato in anni di attività burocratica, di compromessi motivati da machiavelliche ragioni, di frequentazioni cattoliche simili ad incontri massonici.
Prende tempo, non ha armi per ora.
La funzionalità univoca, l’etichetta gerarchica, l’inamovibilità dettate da un intransigente fede cattolica sono le basi della sua presunzione, l’appartenenza ad una casta di consimili è il suo potere e ne è consapevole.
Finge di ascoltarmi ma capisco che sta solo cercando le falle del mio discorso, gli appigli utili a depotenziarmi, probabilmente pensa che io sia un idiota o una persona di cui preoccuparsi poco ed effettivamente in una delirante e tutta personale scala gerarchica per lui valgo poco.
Ancora una volta intravedo forti similitudini tra la pratica cattolica e i vari fascismi, passati e presenti.
Terminate le mie esternazioni trova una serie di motivi per fissare un nuovo incontro, motivi validi se non fosse che in realtà il suo obbiettivo è molto diverso dalle mie aspettative, d’essere per lo meno compreso.
Anni di sotterfugi, di trucchetti, di menzogne coscienti e non, hanno affinato le sue capacità di manipolare le situazioni e di raggiungere i suoi obbiettivi.
Al nuovo incontro è pronto.
Ribatte su tutto o quasi, l’atteggiamento è infantile ma avendo una grande stima di sé o disistima di me non se ne preoccupa, per cui il leit motiv delle sue esternazioni assomiglia ad una azione di rivalsa di un bimbo durante un litigio con un coetaneo, non avrei provato meraviglia nel sentirlo concludere il suo discorso con un: “Tu sei cacca, culo, merda, gnene, gnene, gnene!!”
E mi chiedo:”Ma sono queste le persone che dovrebbero “guidarci”? Abbiamo veramente bisogno di questi burocrati privi di sensibilità se non quella riguardante la difesa dei loro pari e del loro potere?”
Il cavaliere inesistente
SANGUIGNO
lunedì 5 luglio 2010
Die Nase
Era buio e freddo nelle campagne bavaresi e solo una piccola osteria era aperta, se ne intravedeva la luce, un lumino da molto lontano.
Il barone stava ancora vagando a cavallo della sua palla di cannone mentre Till sopra uno struzzo bardato a festa si avvicinava all'osteria, l'osteria si chiamava "Die Augen und die Ohren".
Munchausen vide il lumino e dando grandi schiaffi alla palla riuscì a deviarla in modo che cadesse presso la betola.
Till vi era ormai giunto e già corteggiava le figlie dell'oste raccontando incredibili storie sulla guerra ai saraceni.
Till era esile e biondo, Munchausen grande e nero, le figlie dell'oste belle e prosperose, l'oste si faceva chiamare "Das Auge und das Ohr".
Il mattino dopo Till ripartiva sulla palla di cannone volando in compagnia della figlia dell'oste chiamata "das Auge" e il barone di Munchausen riprese il cammino sopra lo struzzo bardato a festa con l'altra figlia chiamata "das Ohr".
L'oste saluta dalla porta e ora si chiama "Die Nase".
Il cavaliere inesistente.
Un signore con tre cappelli
Ho conosciuto un tale,
un tale di Vignola,
che aveva tre cappelli
e una testa sola.
E girava, girava
per il monte e per il piano
con un cappello in testa:
gli altri due, uno per mano.
Un giorno che pioveva
incontrò un poveretto
che in testa non portava
nè cappello nè berretto.
-Ecco-disse quel tale-
il mondo è tutto sbagliato:
a me tre cappelli,
a lui il capo bagnato....-
E andando per la sua strada
mentre fischiava il vento
quel signore con tre cappelli
era molto malcontento.
Gianni Rodari
domenica 16 maggio 2010
I professionisti del dolore
L’aumento e la diversificazione del disagio bio-psico-sociale coincidente con un “imbarbarimento” della società attuale diventava, per alcuni, un buon modo per guadagnare denaro sulle sofferenze degli altri.
Il nuovo business apriva spazi inaspettati, sia a chi per pulsione personale preferiva fare un lavoro che avesse un significato sociale, sia a chi cercava una facile qualificazione professionale utile a “piazzare il sedere” e a tutti i livelli, laureati in lettere, in lingue, in economia e in chi sa cosa altro che improvvisamente diventano operatori e se raccomandati magari anche dirigenti. Queste persone in linea di massima il disagio maggiore che hanno provato è stata una delusione d’amore adolescenziale e la situazione più a rischio uno spinello clandestino che gli ha fatto girare la testa, sono incapaci di essere competitivi con le loro qualifiche effettive (le lauree) per cui ripiegano sull’unico spazio aperto a tutti.
La loro preparazione tecnica, utile, è legata a un buon uso del linguaggio e capacità “manipolatorie” nei confronti dell’altro, percepito come diverso e in difetto, ma la loro posizione gerarchica è legata in particolare a spinte, raccomandazioni e sostegni esterni politico-ideologici.
Se a questo aggiungiamo le menzogne neoliberiste con la conseguente gestione manageriale dell’aiuto, che per logica, ha come unico obiettivo il budget non occorre molto impegno per comprendere il disastro latente.
Il care management, importato dai paesi più espressamente capitalistici, nato come razionalizzazione del servizio sociale in un’ottica di mercato, tenta di definire gli assistiti come consumatori di servizi, autonomi e in grado di autodeterminarsi.
Gli operatori sociali diventano produttori di servizi che attraverso le privatizzazioni dovrebbero diventare competitori tra loro favorendo le spinte innovative e il ribasso dei costi, ma non è proprio così.
L’ente pubblico (il servizio sociale) diventa, poiché appaltatore, il finanziatore unico dei competitori (con i soldi dei cittadini versati come auto-tutela) che mira naturalmente al risparmio, creando situazioni di ribasso dei costi spropositato.
Tenendo presente che il servizio sociale non produce nulla, se non “indotto”, è naturale una conseguente speculazione sulle uniche fonti rimaste: gli operatori stessi (quelli che operano sul campo) e gli assistiti.
Il sociale diventa un settore di mercato “supposto”, virtuale.
Il “care management” impone nuovamente un cambio di significato dei termini anzi, come scrive Silvia Fargion in un suo volumetto, un cambio dei contesti in cui tali termini agiscono. (S. Fargion-Il servizio sociale. 2009).
Sempre da S. Fargion: “La competizione tra soggetti che offrono servizi può giocare un ruolo molto negativo sulla necessità di cooperazione, incidendo in ultima analisi sulla qualità dei servizi. In un ambiente in cui a fare da protagonista è il budget, si rischia di selezionare offerte e servizi che solo in apparenza si presentano bene o che, secondo il linguaggio del mercato, “sanno vendersi”. Questa situazione ha messo a repentaglio gli aspetti più positivi del terzo settore, cioè il progetto ideale che spesso animava le organizzazioni, cooperative e associazioni, consentendo la sopravivenza solo a chi si dimostra un buon venditore” (o ha agganci importanti, nda), “il che nell’area dei servizi in particolare, non sempre si traduce nella capacità di dare risposte efficaci ai bisogni delle persone”.
Le recenti e varie professioni nel sociale sono sostituite dalle capacità gestionali degli apostoli del “care management”, il vero obiettivo è un altro, economico, e in funzione di questo si stilano graduatorie di merito non certo in base alle qualità deputate agli obbiettivi storicamente riconosciuti al servizio sociale. Chiunque sia in grado di gestire proficuamente un’osteria, una pescheria o una qualsiasi attività commerciale può anche gestire un servizio sociale, la sua posizione gerarchica e ideologica (profitto-risparmio) appiattisce e demotiva ogni professionista (inteso come detentore di conoscenze specifiche) e toglie qualsiasi motivazione tesa alla solidarietà, al sostegno, alla cura, se non quella unicamente dichiarata.
Anche il livello medio della gerarchia gestionale dei servizi (alcuni assistenti sociali, i burocrati, alcuni responsabili-coordinatori, etc..) si è lasciato prendere da questo delirio imprenditoriale, che risulta molto proficuo per mantenere lo status della loro posizione (ogni tanto mi chiedo ma quanti ne hanno sulla coscienza? Ma come fanno a mandare un minore in un carcere minorile per qualche spinello e poi tornare a casa e guardare il proprio figlio/a?), per queste persone provo un profondo disprezzo e mi auguro (per chi capiterà tra le loro mani) che scompaiano presto, lucrano e si mantengono grazie alla “sfiga” degli altri, la vera feccia è questa.
Se interrogati sul loro ruolo etico si giustificano, delegano ad altri, o utilizzano alibi di ogni tipo, se gli si manifesta i propri dubbi sull’operato dei servizi è facile sentirsi dire che si è sbagliato mestiere, ma io credo che ad aver sbagliato mestiere siano proprio loro. Molti di questi non solo non sanno fare altro ma non osano nemmeno rischiare per paura di compromettersi, come i kapò nei campi di concentramento, i piccoli borghesi nelle lotte di classe, i crumiri nelle lotte operaie.
PS: se qualcuno ritiene sia semplice demagogia, ho in serbo per lui una serie di esempi evidenti di queste storture.
Suggerisco agli interessati un approfondimento sul lavoro di S.Fargion, personalmente trovo abbia confermato alcune mie opinioni dandone anche una strutturazione più ampia e anatomizzata, inoltre è stata molto utile nello stimolare nuove riflessioni.
Il cavaliere inesistente
venerdì 30 aprile 2010
FRAMMENTI SUL SOCIALE
lunedì 15 marzo 2010
Servizi sociali (seconda parte)
Anche io rinuncio!
In linea con la determinante iniziativa locale (Bolzano) che coinvolge politici, istituzioni e potenti vari, io rinuncio!
Rinuncio al rigurgito fascista che ha inizialmente fatto uscire la mia parte zoologica e la sua tendenza a difendersi dalle provocazioni, alzando le mani, rinuncio al libero insulto e al libero sputo, ma non rinuncio a manifestare, anche se solo nello spazio limitato del blog, la mia profonda indignazione davanti a tale sfrontatezza.
L’ultimo a rinunciare è stato il direttore dei servizi sociali di Bolzano, ha detto che quest’anno rinuncia ai vestiti nuovi.
A prescindere, c’è chi può rinunciare e chi deve rinunciare, una profonda differenza che un esperto di sostegno sociale, di solidarietà, non deve dimenticare, quando prende certe iniziative, e lo fa pubblicamente oltre tutto, proponendosi come modello positivo.
Personalmente ritengo che un professionista delle istituzioni (in quanto tale pagato dai cittadini) abbia cose diverse da fare che non promuoversi o partecipare a promozioni d’immagine, a meno che lo scopo non sia diverso da quello che il suo ruolo pubblico determina.
Allora ho pensato ad alcuni temi più pertinenti sui quali assumere delle posizioni di rinuncia da parte del direttore.
Rinunci a partecipare (prendendo posizione) a questo massacro degli appalti, a questo ruolo ambiguo da parte dei servizi sociali che delegano ad associazioni, cooperative e quant’altro, mirando ad un ribasso selvaggio dei costi, la parte operativa del sostegno sociale (ciò che è successo al centro per lungo degenti Firmian n’è un esempio) creando disagi economici e spesso conseguenti successivi disagi sociali, rinunci (dati i risultati) ad appoggiare e sostenere progetti d’aiuto sulle dipendenze che perseguono obbiettivi di riduzione del danno e di controllo sociale e si spenda per dare significato a termini quale cura, riabilitazione e prevenzione, rinunci ad appoggiare e sostenere comunità per minori prive di riscontrabile e significante progettualita rendendoli dei parcheggi temporanei.
Rinunci, almeno per un poco, a parte del suo stipendio e provi a vivere, (quando va bene) con 1300 euro al mese e tutte le spese accessorie (affitto, energia, sostentamento), una paga medio-alta per chi lavora in appalto come operatore e se questo non è sufficiente rinunci al suo ruolo pubblico e si sperimenti come operatore turnista in casa di riposo a pulire culi, cambiare stomie e imboccare pazienti e nel contempo trasmettere calore umano, ma soprattutto rinunci a certe rinunce, utili solo a ristabilire le distanze.
Il cavaliere inesistente
sabato 6 febbraio 2010
Ars pingendi
Troppi i significati, le interpretazioni, le assunzioni di ruolo inopportuno, troppo ampio il senso, troppo commercializzato il termine, sono un pittore, forse.
Non un imbianchino che si occupa di decoro istituzionalizzato degli interni e/o esterni, ma un pittore che si occupa di dipingere ciò che desidera dipingere, un produttore d’immagini più o meno fisse che hanno significato principalmente per se/me.
Un poco come un musicista o uno scrittore (o uno scultore, un fotografo, un cineasta) utilizzatori di strumenti per parlare all’anima (attraverso la materia, ad eccezione forse dell’arte concettuale), la propria innanzitutto, per non scordarci che c’è, innanzitutto. Il resto è consequenziale, contestuale e derivante, senza valenza positiva-negativa assoluta.
La definizione pittore (se proprio uno vuole definire) sfugge alla sopravalutazione, alla presunzione, ridimensiona il ruolo, ma non occupandosi di nulla in particolare, di materialmente utile, si diversifica dall’artigianato e dalla pura esecuzione tecnica.
L’atto del dipingere ha radici profonde e ripropone ciclicamente la sua presenza come strumento utile a ridefinire l’essere dell’uomo su questa terra, come lo scrittore, il musicista, il regista, ecc.., evolve, talvolta muta, ma resta l’essenza.
Definirsi pittore non vuole limitare ma diversificare, specializzare.
Non credo che la pittura, il disegno potrà mai scomparire dalla nostra vita, fa parte di noi, è tra i primi modi in cui scopriamo la nostra natura umana, la capacità di intervenire sulla realtà, di distinguerci dalla parte più cruda della bestia, in noi.
Come se scomparisse la musica, tutta, anche la più antica, ma ve lo immaginate? Come se scomparisse la letteratura, la scrittura, la narrazione.
Ritengo falsa l’affermazione che la pittura porti con se, a priori, ideologie borghesi, il fatto che se ne sono appropriati non trascende dalla realtà di un’origine ben più antica, preistorica.
I writing, io credo, ad esempio, sfuggono a tale stortura e si trasformano in “moderni primitivi” alle prese con rinnovate, suburbane grotte d’Altamira.
La predilezione dell’aspetto più tipicamente decorativo ritengo sia la stortura determinata da una concezione borghese della pittura (o in questo caso dell’arte), pur non escludendo una sua valenza importante, in una dialettica del senso estetico. La bellezza non determina l’arte, lo ha detto Kant già molto tempo fà.
Non credo alla morte della pittura in senso stretto molto probabilmente si dipingerà sempre se pur con strumenti e modalità differenti, è morta l’estetica borghese (o sta morendo) probabilmente per essere sostituita dalla totalizzante estetica del capitalismo e a mio giudizio già né “godiamo” i frutti, il business dell’arte contemporanea n’è prova evidente.
Occuparsi di pittura non credo sia un passo indietro, o una tecnica arcaica d’espressione ma più un passo in dentro.
Non una tecnica esclusiva con quei fastidiosi ritorni di presunzione aristocratica, ma una tecnica intima, personale, nel senso che principalmente si occupa della propria persona, intesa com’essere umano.
Il cavaliere inesistente
giovedì 14 gennaio 2010
Serd(servizio dipendenze),eugenetica e bio-psicodeliri
Niente di nuovo e probabilmente per questo più preoccupante.
In altri post ho espresso la mia opinione sulle attuali strategie istituzionali della nostra provincia (Bolzano) per affrontare il problema dipendenze, opinione fortemente critica.
L’evidenza dei fallimenti, ben mistificati grazie ad un opportuno cambio del significato delle parole (prendere quotidianamente tutta una serie di prodotti chimici come metadone, neurolettici, ansiolitici, stabilizzatori ecc.., non è un'altra dipendenza ma una “terapia”), però non ferma queste persone.
Perché? Mettiamo da parte per un momento l’aspetto economico (in precedenti post spiego ciò che io penso al riguardo), quale è il pensiero precedente, l’ideologia portante, le convinzioni condivise che determinano tale atteggiamento?
Da quando la psiche, il nostro intimo, è stato socializzato (mercificato) ed è diventato parte dei nostri interessi (genere umano) è in atto una battaglia tra esperti per determinarne il funzionamento, chi da una parte ritiene che in prevalenza i nostri meccanismi psichici siano frutto di interazioni biochimiche, riducendo il nostro cervello ad un ammasso di reazioni determinate in presenza di stimoli precisi di origine biologica (ricordate il cane di Pavlov?) e chi dall’altra pensa che ciò che determina il funzionamento della nostra psiche siano tutto un insieme di stimoli vari (tra cui quelli biologici hanno sicuramente un loro valore) legati al vissuto, l’esperienza, la percezione, la struttura simbolica della persona (il codice simbolico interpretativo) e quant’altro.
Tale battaglia ha naturalmente un effetto sugli stessi interventi atti a “curare le sofferenze psichiche” se da una parte l’approccio è pluricomprensivo e tende a considerare tutti gli aspetti (conosciuti) che possono contribuire ad aiutare nella cura, biologico, psicologico, (genesi della psiche) e sociale, dall’altra il rischio sempre più evidente è di ridurre l’essenza umana ad un insieme di azioni biochimiche in cui la cura è un intervento diretto su le stesse (un approccio meccanico), lo psicofarmaco appunto (prima di questo c’era l’elettroshock e l’ipnosi).
Nella storia della psichiatria il tentativo di conciliare l’apporto della psicoanalisi con quello altrettanto importante della neurologia o neuropsichiatria, pare sia servito a poco.
Molto interessante a tale proposito risulta un saggio di Alain Ehrenberg, sociologo, in “La fatica di essere se stessi” tratta proprio di questo attraverso la storia socioculturale della depressione, il passaggio dal senso di colpa (Freud) che impediva e costringeva (con tutte le patologie correlate), “l’energia castrata”, per arrivare al senso di inadeguatezza dei nostri giorni in cui tutto è possibile ma molto difficile, “l’energia insufficiente” (Janet).
Oggi il valore di una persona non è determinato dal rispetto delle regole o da una sottomissione ad un codice interiore ma da ciò che rende, dalle sue prestazioni, oggi sempre più bisogna essere “qualcuno” e raggiungere dei risultati che determineranno il valore e lo status stesso di “persona”.
Naturale il collegamento con il doping.
Se è vero come sostiene Ehrenberg che ormai valiamo solo se ci mostriamo all’altezza, l’utilizzo di una sostanza che abbia pochi effetti collaterali ma che aumenti le capacità dell’essere umano nel contrastare la grande fatica (non si parla unicamente di fatica fisica, ma di ogni fatica) dei nostri tempi, pare la soluzione ideale. La tossicomania entra in gioco e le origini di tale fenomeno paiono più socio-culturali che bio-chimiche.
Qui da noi, pare che tutta la parte inerente gli aspetti che trovano origine nei contesti socioculturali della persona, nelle dinamiche familiari, nella genesi del proprio sé, vengono costantemente sottovalutati o trattati istituzionalmente con colloqui con l’esperto di turno, che danno l’idea di avere un valore puramente burocratico.
Al contrario l’abbondanza delle terapie farmacologiche (terapie i cui dosaggi e commistioni, talvolta, lasciano perlomeno perplessi) non lasciano scampo alla volontà sottointesa unicamente di contenere, scadendo spesso nel mantenimento di un’altro tipo di patologia. Negli anni, gli studi psichiatrici (che, ricordiamoci sempre, rientrano nel campo di teorie basate su conoscenze attuali e non esaustive, la stessa biochimica non risponde a quesiti fondamentali nella sua specificità) hanno rilevato l’importanza di ambedue gli approcci alle patologie della psiche, quello biochimico (il farmaco) e quello psichico (genesi della psiche), al contrario di ciò che sembra avvenire qui, perlomeno nei contesti istituzionali.
Il farmaco è utile in fase acuta o come stabilizzatore atto a permettere una psicoterapia, ma la vera terapia resta ancora quest’ultima, il farmaco attenua il disturbo non cura. Il farmaco dovrebbe permettere la psicoterapia, non sostituirla.
Quando il farmaco sostituisce la terapia diventando esso stesso terapia, il pensiero soggiacente assolve le dipendenze, la pillola della felicità ritorna con il suo carico di perplessità. Quando il farmaco, la pillola, la polvere tendono a diventare l’unica vera soluzione ai sempre più abbondanti disturbi della psiche il pensiero soggiacente potrebbe arrivare ad essere una ulteriore distinzione tra normale e patologico, dove il patologico è caratterizzato da disturbi biologici poiché curati biologicamente, un ulteriore categoria di svantaggiati portatori di handicap, in alcune fasce di popolazione già ora si tende, semplicisticamente, a dare un origine genetica alle
dipendenze.
Ritenere o privilegiare una concezione meccanica del nostro funzionamento psichico oltre a peccare di enorme presunzione, infondata, porta inevitabilmente a derive ideologicamente pericolose.
Ad esempio buona parte dell’eugenetica basava le sue idee sulle distinzioni biologiche.
Ricordiamoci che le nostre (genere umano) sono per la maggior parte conoscenze parziali e su conoscenze parziali non si possono costruire ideologie assolute, su conoscenze parziali non si possono costruire teorie senza incorrere nell’errore, e quando tali teorie si arrogano il diritto di definire alcune specificità umane, entrano inevitabilmente esse stesse in dinamiche psicopatologiche o fasciste.
In particolare quando si tratta di forme viventi le sperimentazioni hanno effetti collaterali spesso devastanti, a meno che non si voglia raggiungere le estremizzazioni dei sostenitori del dottor Mengele, per cui senza di lui tante conoscenze mediche oggi non le avremmo, può essere ma senza di lui e i suoi pari forse non avremmo la guerra nel golfo, Israele, la Palestina, le derive dell’estremismo islamico e chissà cosa altro e non entro nel merito di chi tali sperimentazioni le ha subite o le subisce tuttora.
Se la terapia farmacologia ha tra i suoi obbiettivi il contenimento quanto può essere utile abusarne per chi lo ritenesse uno strumento lecito?
L’inibizione delle forme acute o meno, dei disturbi psichici, attraverso il farmaco, non inibisce anche parte della reattività naturale o residua che sia, della persona?
In una volontà di tossicomania l’utilizzo del farmaco non diventa unicamente un sostituto?
La deresponsabilizzazione del tossicodipendente attraverso la giustificazione dell’alterazione biochimica non è causa inevitabile di probabile cronicizzazione del disturbo?
Siamo sicuri che nel tempo l’utilizzo continuo di sostanze chimiche non producano danni collaterali come del resto già si ritiene riguardo alle sostanze illecite, altrettanto dannosi?
Ignorare queste domande è o stupido o comodo, i cronicari sono dietro l’angolo.
Il cavaliere inesistente