Nella frenetica corsa all’affermazione di sé, nel confuso tentativo d’auto definirsi e significarsi, nel mondo del tutto e del contrario di tutto, non sono un artista.
Troppi i significati, le interpretazioni, le assunzioni di ruolo inopportuno, troppo ampio il senso, troppo commercializzato il termine, sono un pittore, forse.
Non un imbianchino che si occupa di decoro istituzionalizzato degli interni e/o esterni, ma un pittore che si occupa di dipingere ciò che desidera dipingere, un produttore d’immagini più o meno fisse che hanno significato principalmente per se/me.
Un poco come un musicista o uno scrittore (o uno scultore, un fotografo, un cineasta) utilizzatori di strumenti per parlare all’anima (attraverso la materia, ad eccezione forse dell’arte concettuale), la propria innanzitutto, per non scordarci che c’è, innanzitutto. Il resto è consequenziale, contestuale e derivante, senza valenza positiva-negativa assoluta.
La definizione pittore (se proprio uno vuole definire) sfugge alla sopravalutazione, alla presunzione, ridimensiona il ruolo, ma non occupandosi di nulla in particolare, di materialmente utile, si diversifica dall’artigianato e dalla pura esecuzione tecnica.
L’atto del dipingere ha radici profonde e ripropone ciclicamente la sua presenza come strumento utile a ridefinire l’essere dell’uomo su questa terra, come lo scrittore, il musicista, il regista, ecc.., evolve, talvolta muta, ma resta l’essenza.
Definirsi pittore non vuole limitare ma diversificare, specializzare.
Non credo che la pittura, il disegno potrà mai scomparire dalla nostra vita, fa parte di noi, è tra i primi modi in cui scopriamo la nostra natura umana, la capacità di intervenire sulla realtà, di distinguerci dalla parte più cruda della bestia, in noi.
Come se scomparisse la musica, tutta, anche la più antica, ma ve lo immaginate? Come se scomparisse la letteratura, la scrittura, la narrazione.
Ritengo falsa l’affermazione che la pittura porti con se, a priori, ideologie borghesi, il fatto che se ne sono appropriati non trascende dalla realtà di un’origine ben più antica, preistorica.
I writing, io credo, ad esempio, sfuggono a tale stortura e si trasformano in “moderni primitivi” alle prese con rinnovate, suburbane grotte d’Altamira.
La predilezione dell’aspetto più tipicamente decorativo ritengo sia la stortura determinata da una concezione borghese della pittura (o in questo caso dell’arte), pur non escludendo una sua valenza importante, in una dialettica del senso estetico. La bellezza non determina l’arte, lo ha detto Kant già molto tempo fà.
Non credo alla morte della pittura in senso stretto molto probabilmente si dipingerà sempre se pur con strumenti e modalità differenti, è morta l’estetica borghese (o sta morendo) probabilmente per essere sostituita dalla totalizzante estetica del capitalismo e a mio giudizio già né “godiamo” i frutti, il business dell’arte contemporanea n’è prova evidente.
Occuparsi di pittura non credo sia un passo indietro, o una tecnica arcaica d’espressione ma più un passo in dentro.
Non una tecnica esclusiva con quei fastidiosi ritorni di presunzione aristocratica, ma una tecnica intima, personale, nel senso che principalmente si occupa della propria persona, intesa com’essere umano.
Il cavaliere inesistente
Troppi i significati, le interpretazioni, le assunzioni di ruolo inopportuno, troppo ampio il senso, troppo commercializzato il termine, sono un pittore, forse.
Non un imbianchino che si occupa di decoro istituzionalizzato degli interni e/o esterni, ma un pittore che si occupa di dipingere ciò che desidera dipingere, un produttore d’immagini più o meno fisse che hanno significato principalmente per se/me.
Un poco come un musicista o uno scrittore (o uno scultore, un fotografo, un cineasta) utilizzatori di strumenti per parlare all’anima (attraverso la materia, ad eccezione forse dell’arte concettuale), la propria innanzitutto, per non scordarci che c’è, innanzitutto. Il resto è consequenziale, contestuale e derivante, senza valenza positiva-negativa assoluta.
La definizione pittore (se proprio uno vuole definire) sfugge alla sopravalutazione, alla presunzione, ridimensiona il ruolo, ma non occupandosi di nulla in particolare, di materialmente utile, si diversifica dall’artigianato e dalla pura esecuzione tecnica.
L’atto del dipingere ha radici profonde e ripropone ciclicamente la sua presenza come strumento utile a ridefinire l’essere dell’uomo su questa terra, come lo scrittore, il musicista, il regista, ecc.., evolve, talvolta muta, ma resta l’essenza.
Definirsi pittore non vuole limitare ma diversificare, specializzare.
Non credo che la pittura, il disegno potrà mai scomparire dalla nostra vita, fa parte di noi, è tra i primi modi in cui scopriamo la nostra natura umana, la capacità di intervenire sulla realtà, di distinguerci dalla parte più cruda della bestia, in noi.
Come se scomparisse la musica, tutta, anche la più antica, ma ve lo immaginate? Come se scomparisse la letteratura, la scrittura, la narrazione.
Ritengo falsa l’affermazione che la pittura porti con se, a priori, ideologie borghesi, il fatto che se ne sono appropriati non trascende dalla realtà di un’origine ben più antica, preistorica.
I writing, io credo, ad esempio, sfuggono a tale stortura e si trasformano in “moderni primitivi” alle prese con rinnovate, suburbane grotte d’Altamira.
La predilezione dell’aspetto più tipicamente decorativo ritengo sia la stortura determinata da una concezione borghese della pittura (o in questo caso dell’arte), pur non escludendo una sua valenza importante, in una dialettica del senso estetico. La bellezza non determina l’arte, lo ha detto Kant già molto tempo fà.
Non credo alla morte della pittura in senso stretto molto probabilmente si dipingerà sempre se pur con strumenti e modalità differenti, è morta l’estetica borghese (o sta morendo) probabilmente per essere sostituita dalla totalizzante estetica del capitalismo e a mio giudizio già né “godiamo” i frutti, il business dell’arte contemporanea n’è prova evidente.
Occuparsi di pittura non credo sia un passo indietro, o una tecnica arcaica d’espressione ma più un passo in dentro.
Non una tecnica esclusiva con quei fastidiosi ritorni di presunzione aristocratica, ma una tecnica intima, personale, nel senso che principalmente si occupa della propria persona, intesa com’essere umano.
Il cavaliere inesistente
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