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domenica 16 maggio 2010

I professionisti del dolore

Anni fa quando ancora non esistevano tutti questi assistenti sociali, psicologi, psichiatri, assistenti geriatrici, direttori di servizio, responsabili tecnici, operatori sociosanitari o socio-assistenziali, educatori, OTA, ASA, ecc..., nell’ambiente s’iniziava a parlare di “business del sociale”, di nuove opportunità di crescita lavorativa ed economica nel mondo della solidarietà e dell’aiuto, per molti “il disagio” cominciava a perdere il suo significato più espressamente emotivo per diventare, più che altro, un’occasione economica di facile utilizzo.
L’aumento e la diversificazione del disagio bio-psico-sociale coincidente con un “imbarbarimento” della società attuale diventava, per alcuni, un buon modo per guadagnare denaro sulle sofferenze degli altri.
Il nuovo business apriva spazi inaspettati, sia a chi per pulsione personale preferiva fare un lavoro che avesse un significato sociale, sia a chi cercava una facile qualificazione professionale utile a “piazzare il sedere” e a tutti i livelli, laureati in lettere, in lingue, in economia e in chi sa cosa altro che improvvisamente diventano operatori e se raccomandati magari anche dirigenti. Queste persone in linea di massima il disagio maggiore che hanno provato è stata una delusione d’amore adolescenziale e la situazione più a rischio uno spinello clandestino che gli ha fatto girare la testa, sono incapaci di essere competitivi con le loro qualifiche effettive (le lauree) per cui ripiegano sull’unico spazio aperto a tutti.
La loro preparazione tecnica, utile, è legata a un buon uso del linguaggio e capacità “manipolatorie” nei confronti dell’altro, percepito come diverso e in difetto, ma la loro posizione gerarchica è legata in particolare a spinte, raccomandazioni e sostegni esterni politico-ideologici.
Se a questo aggiungiamo le menzogne neoliberiste con la conseguente gestione manageriale dell’aiuto, che per logica, ha come unico obiettivo il budget non occorre molto impegno per comprendere il disastro latente.
Il care management, importato dai paesi più espressamente capitalistici, nato come razionalizzazione del servizio sociale in un’ottica di mercato, tenta di definire gli assistiti come consumatori di servizi, autonomi e in grado di autodeterminarsi.
Gli operatori sociali diventano produttori di servizi che attraverso le privatizzazioni dovrebbero diventare competitori tra loro favorendo le spinte innovative e il ribasso dei costi, ma non è proprio così.
L’ente pubblico (il servizio sociale) diventa, poiché appaltatore, il finanziatore unico dei competitori (con i soldi dei cittadini versati come auto-tutela) che mira naturalmente al risparmio, creando situazioni di ribasso dei costi spropositato.
Tenendo presente che il servizio sociale non produce nulla, se non “indotto”, è naturale una conseguente speculazione sulle uniche fonti rimaste: gli operatori stessi (quelli che operano sul campo) e gli assistiti.
Il sociale diventa un settore di mercato “supposto”, virtuale.
Il “care management” impone nuovamente un cambio di significato dei termini anzi, come scrive Silvia Fargion in un suo volumetto, un cambio dei contesti in cui tali termini agiscono. (S. Fargion-Il servizio sociale. 2009).
Sempre da S. Fargion: “La competizione tra soggetti che offrono servizi può giocare un ruolo molto negativo sulla necessità di cooperazione, incidendo in ultima analisi sulla qualità dei servizi. In un ambiente in cui a fare da protagonista è il budget, si rischia di selezionare offerte e servizi che solo in apparenza si presentano bene o che, secondo il linguaggio del mercato, “sanno vendersi”. Questa situazione ha messo a repentaglio gli aspetti più positivi del terzo settore, cioè il progetto ideale che spesso animava le organizzazioni, cooperative e associazioni, consentendo la sopravivenza solo a chi si dimostra un buon venditore” (o ha agganci importanti, nda), “il che nell’area dei servizi in particolare, non sempre si traduce nella capacità di dare risposte efficaci ai bisogni delle persone”.

Le recenti e varie professioni nel sociale sono sostituite dalle capacità gestionali degli apostoli del “care management”, il vero obiettivo è un altro, economico, e in funzione di questo si stilano graduatorie di merito non certo in base alle qualità deputate agli obbiettivi storicamente riconosciuti al servizio sociale. Chiunque sia in grado di gestire proficuamente un’osteria, una pescheria o una qualsiasi attività commerciale può anche gestire un servizio sociale, la sua posizione gerarchica e ideologica (profitto-risparmio) appiattisce e demotiva ogni professionista (inteso come detentore di conoscenze specifiche) e toglie qualsiasi motivazione tesa alla solidarietà, al sostegno, alla cura, se non quella unicamente dichiarata.
Anche il livello medio della gerarchia gestionale dei servizi (alcuni assistenti sociali, i burocrati, alcuni responsabili-coordinatori, etc..) si è lasciato prendere da questo delirio imprenditoriale, che risulta molto proficuo per mantenere lo status della loro posizione (ogni tanto mi chiedo ma quanti ne hanno sulla coscienza? Ma come fanno a mandare un minore in un carcere minorile per qualche spinello e poi tornare a casa e guardare il proprio figlio/a?), per queste persone provo un profondo disprezzo e mi auguro (per chi capiterà tra le loro mani) che scompaiano presto, lucrano e si mantengono grazie alla “sfiga” degli altri, la vera feccia è questa.
Se interrogati sul loro ruolo etico si giustificano, delegano ad altri, o utilizzano alibi di ogni tipo, se gli si manifesta i propri dubbi sull’operato dei servizi è facile sentirsi dire che si è sbagliato mestiere, ma io credo che ad aver sbagliato mestiere siano proprio loro. Molti di questi non solo non sanno fare altro ma non osano nemmeno rischiare per paura di compromettersi, come i kapò nei campi di concentramento, i piccoli borghesi nelle lotte di classe, i crumiri nelle lotte operaie.
PS: se qualcuno ritiene sia semplice demagogia, ho in serbo per lui una serie di esempi evidenti di queste storture.

Suggerisco agli interessati un approfondimento sul lavoro di S.Fargion, personalmente trovo abbia confermato alcune mie opinioni dandone anche una strutturazione più ampia e anatomizzata, inoltre è stata molto utile nello stimolare nuove riflessioni.
Il cavaliere inesistente