Niente di nuovo e probabilmente per questo più preoccupante.
In altri post ho espresso la mia opinione sulle attuali strategie istituzionali della nostra provincia (Bolzano) per affrontare il problema dipendenze, opinione fortemente critica.
L’evidenza dei fallimenti, ben mistificati grazie ad un opportuno cambio del significato delle parole (prendere quotidianamente tutta una serie di prodotti chimici come metadone, neurolettici, ansiolitici, stabilizzatori ecc.., non è un'altra dipendenza ma una “terapia”), però non ferma queste persone.
Perché? Mettiamo da parte per un momento l’aspetto economico (in precedenti post spiego ciò che io penso al riguardo), quale è il pensiero precedente, l’ideologia portante, le convinzioni condivise che determinano tale atteggiamento?
Da quando la psiche, il nostro intimo, è stato socializzato (mercificato) ed è diventato parte dei nostri interessi (genere umano) è in atto una battaglia tra esperti per determinarne il funzionamento, chi da una parte ritiene che in prevalenza i nostri meccanismi psichici siano frutto di interazioni biochimiche, riducendo il nostro cervello ad un ammasso di reazioni determinate in presenza di stimoli precisi di origine biologica (ricordate il cane di Pavlov?) e chi dall’altra pensa che ciò che determina il funzionamento della nostra psiche siano tutto un insieme di stimoli vari (tra cui quelli biologici hanno sicuramente un loro valore) legati al vissuto, l’esperienza, la percezione, la struttura simbolica della persona (il codice simbolico interpretativo) e quant’altro.
Tale battaglia ha naturalmente un effetto sugli stessi interventi atti a “curare le sofferenze psichiche” se da una parte l’approccio è pluricomprensivo e tende a considerare tutti gli aspetti (conosciuti) che possono contribuire ad aiutare nella cura, biologico, psicologico, (genesi della psiche) e sociale, dall’altra il rischio sempre più evidente è di ridurre l’essenza umana ad un insieme di azioni biochimiche in cui la cura è un intervento diretto su le stesse (un approccio meccanico), lo psicofarmaco appunto (prima di questo c’era l’elettroshock e l’ipnosi).
Nella storia della psichiatria il tentativo di conciliare l’apporto della psicoanalisi con quello altrettanto importante della neurologia o neuropsichiatria, pare sia servito a poco.
Molto interessante a tale proposito risulta un saggio di Alain Ehrenberg, sociologo, in “La fatica di essere se stessi” tratta proprio di questo attraverso la storia socioculturale della depressione, il passaggio dal senso di colpa (Freud) che impediva e costringeva (con tutte le patologie correlate), “l’energia castrata”, per arrivare al senso di inadeguatezza dei nostri giorni in cui tutto è possibile ma molto difficile, “l’energia insufficiente” (Janet).
Oggi il valore di una persona non è determinato dal rispetto delle regole o da una sottomissione ad un codice interiore ma da ciò che rende, dalle sue prestazioni, oggi sempre più bisogna essere “qualcuno” e raggiungere dei risultati che determineranno il valore e lo status stesso di “persona”.
Naturale il collegamento con il doping.
Se è vero come sostiene Ehrenberg che ormai valiamo solo se ci mostriamo all’altezza, l’utilizzo di una sostanza che abbia pochi effetti collaterali ma che aumenti le capacità dell’essere umano nel contrastare la grande fatica (non si parla unicamente di fatica fisica, ma di ogni fatica) dei nostri tempi, pare la soluzione ideale. La tossicomania entra in gioco e le origini di tale fenomeno paiono più socio-culturali che bio-chimiche.
Qui da noi, pare che tutta la parte inerente gli aspetti che trovano origine nei contesti socioculturali della persona, nelle dinamiche familiari, nella genesi del proprio sé, vengono costantemente sottovalutati o trattati istituzionalmente con colloqui con l’esperto di turno, che danno l’idea di avere un valore puramente burocratico.
Al contrario l’abbondanza delle terapie farmacologiche (terapie i cui dosaggi e commistioni, talvolta, lasciano perlomeno perplessi) non lasciano scampo alla volontà sottointesa unicamente di contenere, scadendo spesso nel mantenimento di un’altro tipo di patologia. Negli anni, gli studi psichiatrici (che, ricordiamoci sempre, rientrano nel campo di teorie basate su conoscenze attuali e non esaustive, la stessa biochimica non risponde a quesiti fondamentali nella sua specificità) hanno rilevato l’importanza di ambedue gli approcci alle patologie della psiche, quello biochimico (il farmaco) e quello psichico (genesi della psiche), al contrario di ciò che sembra avvenire qui, perlomeno nei contesti istituzionali.
Il farmaco è utile in fase acuta o come stabilizzatore atto a permettere una psicoterapia, ma la vera terapia resta ancora quest’ultima, il farmaco attenua il disturbo non cura. Il farmaco dovrebbe permettere la psicoterapia, non sostituirla.
Quando il farmaco sostituisce la terapia diventando esso stesso terapia, il pensiero soggiacente assolve le dipendenze, la pillola della felicità ritorna con il suo carico di perplessità. Quando il farmaco, la pillola, la polvere tendono a diventare l’unica vera soluzione ai sempre più abbondanti disturbi della psiche il pensiero soggiacente potrebbe arrivare ad essere una ulteriore distinzione tra normale e patologico, dove il patologico è caratterizzato da disturbi biologici poiché curati biologicamente, un ulteriore categoria di svantaggiati portatori di handicap, in alcune fasce di popolazione già ora si tende, semplicisticamente, a dare un origine genetica alle
dipendenze.
Ritenere o privilegiare una concezione meccanica del nostro funzionamento psichico oltre a peccare di enorme presunzione, infondata, porta inevitabilmente a derive ideologicamente pericolose.
Ad esempio buona parte dell’eugenetica basava le sue idee sulle distinzioni biologiche.
Ricordiamoci che le nostre (genere umano) sono per la maggior parte conoscenze parziali e su conoscenze parziali non si possono costruire ideologie assolute, su conoscenze parziali non si possono costruire teorie senza incorrere nell’errore, e quando tali teorie si arrogano il diritto di definire alcune specificità umane, entrano inevitabilmente esse stesse in dinamiche psicopatologiche o fasciste.
In particolare quando si tratta di forme viventi le sperimentazioni hanno effetti collaterali spesso devastanti, a meno che non si voglia raggiungere le estremizzazioni dei sostenitori del dottor Mengele, per cui senza di lui tante conoscenze mediche oggi non le avremmo, può essere ma senza di lui e i suoi pari forse non avremmo la guerra nel golfo, Israele, la Palestina, le derive dell’estremismo islamico e chissà cosa altro e non entro nel merito di chi tali sperimentazioni le ha subite o le subisce tuttora.
Se la terapia farmacologia ha tra i suoi obbiettivi il contenimento quanto può essere utile abusarne per chi lo ritenesse uno strumento lecito?
L’inibizione delle forme acute o meno, dei disturbi psichici, attraverso il farmaco, non inibisce anche parte della reattività naturale o residua che sia, della persona?
In una volontà di tossicomania l’utilizzo del farmaco non diventa unicamente un sostituto?
La deresponsabilizzazione del tossicodipendente attraverso la giustificazione dell’alterazione biochimica non è causa inevitabile di probabile cronicizzazione del disturbo?
Siamo sicuri che nel tempo l’utilizzo continuo di sostanze chimiche non producano danni collaterali come del resto già si ritiene riguardo alle sostanze illecite, altrettanto dannosi?
Ignorare queste domande è o stupido o comodo, i cronicari sono dietro l’angolo.
Il cavaliere inesistente